mercoledì 20 marzo 2019

OSTI E OSTERIE NELLA NERVIANO CHE FU


A me piacciono gli anfratti bui delle osterie dormienti, dove la gente culmina nell’eccesso del canto
Questi versi di Alda Merini sono uno splendido tributo a quei luoghi di ritrovo e di svago che un tempo erano immancabili, sia nel più sperduto paese, che nella grande città.
E  nel 1922  Nerviano di osterie era ricca, come si nota nella  Grande Pianta Generale del Borgo e Comunità di Nerviano” su cui Paolo Caccia Dominioni segnala “tutte le bettole e le botteghe o negozi di vino” del paese nativo: tavola che utilizzeremo come aiuto per fare un salto a ritroso nel tempo.
Il Conte ha 26 anni e, uscito dall’esperienza drammatica della prima guerra mondiale, è proiettato in un contesto sociale e politico che sta vivendo cambiamenti radicali: siamo infatti alla vigilia della marcia su Roma. 
Con tono volutamente spensierato e goliardico, quasi a prendere le distanze da quel momento storico di grande tensione, dedica il disegno a Don Filippo Piazzi e al Signor Eugenio Albè “vecchi amici di spugne imperiali”.  Questo intento canzonatorio è reso ancor più evidente dal fatto che nella tavola  spiccano, irriverenti, due stemmi;  il primo, al centro, è quello della città di Nerviano, percorsa tutt’intorno da un motto scherzoso  Fuit barbera studium” che non ammette dubbi riguardo al vino preferito dai tre amici e, si suppone, dai Nervianesi. Nel secondo, troviamo una bottiglia , sorretta da due leoni, sormontata da una corona nobiliare composta da cinque calici e circondata da un collare da cui pende un bicchiere di vino. Alla sua sinistra spicca lo stemma della casata  Caccia Dominioni con la corona a nove punte che indica il titolo di conte, alla sua destra  è posizionato lo stemma dei Piazzi. Le due famiglie allora più in vista di Nerviano sono dunque accomunate, in questo disegno, da un’allegra e nel contempo nobile passione  per il vino.
Passione condivisa, però, dalla stragrande maggioranza dei Nervianesi. Lungo l’asse principale del paese sono indicate, partendo dal Sempione e scendendo sino al Pasquè, con il simbolo di una coppa, ben 23 osterie. Oltre alla  precisa  ricostruzione  delle sagome delle chiese e dei palazzi nobiliari, spiccano tre simboli che indicano come la politica abbia fatto irruzione anche  nella statica comunità nervianese. Tre osterie, infatti, sono affiancate dal simbolo del partito di riferimento  lo scudo crociato, la falce e martello, i fasci littori. Il primo indica il partito popolare, fondato da Don Sturzo nel 1918,  il secondo il Partito Comunista, fondato da Gramsci nel gennaio del 1921, il terzo  il partito fascista, fondato a Roma nel novembre del 1921, come evoluzione del movimento dei fasci di combattimento. Tre osterie, dunque, sono diventate punto di ritrovo di persone che si riconoscono in precisi  e fortemente contrapposti obiettivi politici. Spiega Paolo Caccia Dominioni con evidente ironia: “Sono dove si beve per un alto ideale”. Un passo, avanti, comunque, rispetto all’immobilismo che ha caratterizzato per decenni la vita politica nervianese, ma sarà una breve parentesi, giacchè siamo alla vigilia della Marcia su Roma… Da notare che le tre sedi indicate non corrispondono minimamente a quelle che gli stessi partiti avranno come punto di riferimento negli anni successivi. I simpatizzanti di Mussolini, per esempio, non esistendo ancora la Casa del Fascio, avevano come punto di ritrovo l’osteria del “Rabiaa” - un nome che era tutto un programma - situata in corrispondenza dell’attuale Bar Stazione.
Ma cerchiamo di capire  la realtà di quel periodo, con l’intento di non mitizzare troppo il tempo passato:  l’economia di Nerviano  negli anni ’20 era ancora essenzialmente agricola i I lavori più praticati erano quelli del paisan e del carrettee. La maggior parte dei contadini, lavorava terre  di proprietà dei possidenti della zona, quindi erano fitaol (fittavoli). Molti giovani, in bicicletta, si recavano a Milano per fare i magutt. Nelle case piccole e malsane mancava l’acqua corrente, l’elettricità era un lusso per pochi e il riscaldamento lo si otteneva col camino e la stufa a legna e carbone e per risparmiare il combustibile alla sera le famiglie si riunivano nella stalla per riscaldarsi al tepore delle bestie. Parliamo di un’epoca, chiaramente,  in cui i divertimenti erano pochi…
Quando gli uomini tornavano a casa stanchi, sfiniti dal lavoro, cosa rimaneva se non spendere le serate nell’unica consolazione che una vita grama poteva dare? Si andava quindi all’osteria e si annegavano pensieri e dispiaceri nel vino a cui  una credenza diffusa attribuiva  effetti corroboranti.
Non va sottovalutato inoltre il fatto che il consumo di alcolici era vissuto anche come una importante forma di aggregazione sociale. I paisan, infatti, guardavano con benevolenza e con una certa dose d’ammirazione chi riusciva a scolare più tazze di vino, anzi,  a volte si svolgevano vere e proprie sfide  a suon di quartini e di mezzi litri. Le uniche a lamentarsi per queste abitudini maschili erano le madri e le mogli che si trovavano a gestire le conseguenze, sempre spiacevoli, dell’ubriacatura…
All’osteria però non si andava solo per bere, ma anche per giocare, per farsi raccontare le novità del paese, per concludere affari.
In un mobiletto si trovavano i mazzi di carte con cui gli avventori giocavano a scopa, a scopone scientifico, alla marianna, a briscola, segnando i punti su apposite lavagnette. Due coppie si fronteggiavano  e ogni mezzo era lecito pur di vincere la partita: il tutto condito da contestazioni, urla, ingiurie più o meno colorite. Poi , vinti e vincitori si consolavano  o esultavano con una immancabile bevuta.
I marossee (mediatori di bestiame) aspettavano il momento in cui i contadini, rintronati dal vino generosamente offerto, erano disposti a vendere le loro bestie senza discutere troppo sul prezzo.
Poco prima della chiusura, trattandosi di una pratica vietata, si giocava alla morra  e i locali annebbiati dal fumo e impregnati dagli effluvi del vino, del sudore , del tabacco risuonavano di quatar, cenq , mura, con il consueto accompagnamento di incitamenti e recriminazioni che, a volte, sfociavano in vere e proprie risse
Col suo piccolo saggio “La vita a Nerviano”, Giuseppina Colombo ci aiutr a  ricordare alcune tra le più note osterie nervianesi del passato. In particolare in Viale Villoresi si trovava “Il Trani” del Pepin Di Marzo: questa mescita doveva il suo nome al luogo di nascita del proprietario, che ricordiamo anche come il primo meridionale che si stabilì a Nerviano (per la gioia di tanti bevitori…).
Molti furono i pugliesi, infatti, che in seguito alla guerra doganale con la Francia, iniziarono ad aprire locali a Milano e nei dintorni, vendendo vino molto alcolico a prezzi decisamente contenuti.  (Chi non ricorda la canzone di Gaber, Trani a gogo?)            
Nell’attuale Piazza Italia  Piazza Granda”, in corrispondenza con la Cremeria, si poteva frequentare “l’osteria della Polvara” che, in seguito acquistata dal maniscalco che aveva la sua officina lì vicino, venne ribattezzata “Osteria del Cavallino
Il Circulon era il luogo di ritrovo dei contadini che facevano parte della Cooperativa Sant’Isidoro. Ora, di questa osteria situata in via Rondanini, all’angolo della Streccia di Boldoritt, non è rimasta più alcuna traccia. A questo grande locale, a forma di L si accedeva direttamente dalla strada . Piero Dellavedova in “Luci e ombre di Nerviano” descrive  il suo interno: il bancone della mescita in noce massiccio, con bottiglioni di vino dozzinale, gli specchi con la pubblicità alle pareti, il mobile alle spalle dell’oste su cui erano disposti in ordine scrupoloso al litar, al mezz litar, al quart, al quarten, con tanto di timbro governativo che ne garantiva la quantità.
Gli avventori sedevano su sedie impagliate disposte intorno a tavoloni di legno. Sparse per il locale si trovavano le mitiche sputacchiere, in quanto un cartello vietava tassativamente di sputare in terra. Era vietato anche bestemmiare e giocare a morra. Ma tutti e tre i divieti erano abitualmente disattesi...
Un’altra mescita molto frequentata era quella della “Pesa”, in Piazza Olona. Qui c’era la pesa pubblica dove  venivano pesati animali e merci e, accanto, una piccola edicola di giornali. 
In via Lazzaretto si trovava invece “La trattoria dell’Olona” gestita dalla Brama e dal Rico, chiamati i piemontes, perché servivano  vini provenienti da quella regione.
All’imbocco del Viale Villoresi si trovava il Gioann Tabacchee: il locale, che, gestito da Ceriani Giovanni passerà successivamente al figlio Gini nella sua bivalente specializzazione di osteria/tabaccheria, dava una sorta di abbrivio a chi, in particolare vena (alcolica) decideva di iniziare il giro delle bettole! Dall’altra parte del Sempione, all’angolo di via IV Novembre, “Al Bigio” al secolo “Ristorante Zancona”, che in origine era un’antica stazione di posta per cavalli, funzione poi decaduta quando il servizio di trasporto lungo la Strada Statale venne assicurato dal tram. Successivamente questa locanda divenne nota come “La Grotta Azzurra”, celebre in quanto vi si svolgevano serate danzanti, oltre naturalmente a garantire il mantenimento dell’umidità della gola…
Andando verso Legnano si incontrava poi la “Locanda Vegia dal Sciatell”, che era meglio nota per altri “articoli” più che per la vendita del vino…
E fin qui il Capoluogo: ma le Frazioni?  Ovviamente fiaschetterie, osterie, locande e trattorie costellavano il territorio e presidiavano le strade più frequentate, senza lasciare però sguarnite le cascine isolate. Ecco allora che percorrendo Via Garibaldi, entrando in S. Ilario, si incontrava la fiaschetteria Colombo, seguita poco più avanti dal Pivatt e dall’osteria/tabaccheria del Chilu Tabacchee e poi il Bar Centrale. Una caratteristica particolare consisteva in una sorta di osterie autarchiche che sorgevano in diversi cortili della Cassina dal pè  che funzionavano in maniera singolare, ovvero quasi come dei ritrovi o dei circoli, ma che garantivano  - come i locali “ufficiali” – la fornitura del nettare di Bacco.
Alla Garbatola la presenza della Trattoria San Francesco - gestita dalla famiglia Leva – e del Circolo, evitava  di lasciare i paisan senza vino, mentre a Villanova il Circolino non esisteva ancora (non dimentichiamoci che nel nostro viaggio a ritroso nel tempo ci siamo fermati nel 1922…) quindi ci si doveva arrangiare diversamente… Un’osteria non mancava neppure a Costa San Lorenzo: la Genoeffa…
E Cantone? Non ce ne siamo dimenticati, assolutamente! Con un poco di poesia chiudiamo questo “amarcord” proprio con l’Osteria Vighignoeu perché la possiamo definire l’ultima osteria, l’ultimo locale in cui - a Nerviano – si ritrovano ancora sensazioni, battute e… bevute degne dei tempi andati. La storia del “Vighi” (come viene chiemato oggi…) risale agli ultimi anni dell’800, quando il Tognen, proveniente da Vighignolo, mette in piedi una baracca per la mescita del vino all’inizio di Via Torino… il nome col quale era conosciuta la bettola era “La Gabana”: ogni commento è superfluo.  Il Tognen, che non aveva figli, tenne con sé un nipote, Angelo, figlio della sorella che doveva badare ad altri sette figli e a lui lasciò poi l’attività. Attività che a quanto pare il giovanotto fece fruttare, visto che nel 1910 costruì l’edificio che ancora oggi ospita l’osteria… Poi la ruota gira, dopo Angelo il figlio Gioann con la moglie Pasquina e il Vighignoeu è arrivato sino ai nostri giorni, grazie all’indimenticabile Livia e all’inossidabile Angelo: l’ultimo oste di Nerviano.

Paolo Musazzi
Sergio Parini
Si ringraziano per la preziosa collaborazione Sergio Banfi “Tabacchee” e Angelo Cucchi “Oste”

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