mercoledì 20 marzo 2019

LA CHIESA DELLA BEATA VERGINE ANNUNCIATA "LA ROTONDINA"


Capita raramente di imbattersi in piccoli gioielli dell’architettura, così belli da essere degni di ben altra collocazione. Accade così per la chiesa dedicata alla Beata Vergine dell’Annunciata, chiamata in principio “la Madonnina” e che successivamente acquisì la denominazione popolare di “Rotondina”.
 “Uno scrigno prezioso per custodire una perla di grande valore: questo è la Rotondina” . Con queste parole nel 1977, Don Ugo Mocchetti, il tanto amato prevosto di Nerviano, descrive la chiesetta dopo la fine dei lavori di restauro  che aveva commissionato per salvarla dal degrado e dal disfacimento legati a numerosi decenni d’incuria.


Ma cos’è  “la perla” di grande valore che  è contenuta nella chiesetta? Si tratta di un affresco dell’Annunciata, che secondo Giorgio Re, storico di Nerviano, risale agli inizi del 1500. Questo affresco, in origine, si trovava su un’ambona di muro protetta da un’edicola posta nello slargo alla confluenza di quattro strade, di cui una diretta a Parabiago.
I documenti in nostro possesso non menzionano il nome dell’artista ma l’ipotesi più percorribile ci viene offerta sempre da Giorgio Re, che ha individuato l’autore in un pittore che ha lavorato nei luoghi di quello che è stato definito “filtratore e riduttore del Rinascimento”: Ambrogio da Fossano, detto il Bergognone, la cui opera ultima era ospitata nella poco discosta Chiesa di Maria Incoronata presso il  Monastero degli Olivetani. In forza di questa ipotesi  la mano che ha realizzato l’Annunciata della nostra Rotondina potrebbe essere quella di Bernardino De Rossi, la cui Nunziata raffigurata sulla facciata della chiesa di Sant’Eustorgio e Santa Maria a Vigano Certosino ricorda nei tratti e nella fattura la Vergine nervianese.
Questa immagine era oggetto di molta devozione  da parte della popolazione e per preservarla e proteggerla dal degrado, il prevosto Ambrogio Taggia nell’aprile del 1681 chiese alla Curia Arcivescovile di Milano il permesso di costruire una cappella campestre. L'incarico  di redigere il progetto  era stato  affidato, un anno prima, nel 1680 a Giuseppe Quadrio, ingegnere e architetto facente parte della famiglia  che in un periodo di poco successivo si occupò della costruzione di Sant’Ambrogio della Vittoria a Parabiago. A lui si deve il primo abbozzo della chiesetta dell’Annunciata  il cui disegno originale  è conservato, ancora , presso la Biblioteca Ambrosiana.  Di questo disegno colpisce soprattutto la struttura circolare che richiama espressioni architettoniche tipiche del 1600 Lombardo, quali la Rotonda di San Sebastiano a Milano  e l’oratorio dell’Immacolata al Sacro Cuore di Varese.
Probabilmente per il progettista questa forma assumeva anche una funzione simbolica  di apertura alla comunità e alla dimensione onnipresente della divinità. In particolare va rilevato che la chiesetta, proprio per rimarcare questi messaggi, presentava tre porte: due laterali di dimensione più ridotte (in seguito murate) e una centrale che si apre tuttora sullo spiazzo  ed è rivolta  verso Nerviano,  quasi a sottolineare la maggior rilevanza di questo paese.
Come è possibile osservare dalle mappe del Catasto Teresiano di inizio ‘700  la chiesa al tempo della sua erezione era situata proprio al limitare del centro abitato a poche decine di metri dall’edificio religioso più importante del territorio: il Monastero dei Padri Olivetani. Una posizione di presidio e di protezione del paese, verso l’aperta campagna, la cui funzione era avvalorata dalla particolare devozione che il dipinto murale suscitava già ben prima della costruzione del Santuario.
Il permesso della Curia arrivò  in tempi brevissimi rispetto alla richiesta fatta dal Taeggia: già il 12 luglio 1681 giungeva infatti la risposta positiva
Occorreva ora pensare ai finanziamenti che, visti i  tempi segnati dalle guerre legate alla successione spagnola, risultavano difficili da reperire. La Chiesa Prepositurale fu, per questo motivo, costretta a contrarre un prestito di 2050 pietre nel 1684. Proprio in quell’anno Gaspare Cogliati, Mastro ferraio di Nerviano - a cui si deve tra l’altro la Croce che ancora possiamo ammirare nella piazza omonima  per celebrare la fine della peste – destinò nel proprio testamento  un  consistente legato a beneficio della erigenda cappella.  La situazione migliorò al termine del 1600, quando il dominio spagnolo stava per finire e la Lombardia cominciava ad uscire dalla crisi economica che l’aveva travagliata.
Fu, infatti, creato un ”Conto della Madonna” destinato a raccogliere e a gestire le offerte dei fedeli, fra le quali spicca un lascito importante evoluto da  tale Giuseppe Re. La costruzione della chiesetta, almeno nella parte esterna, fu portata a termine nel 1696 e la fine dei lavori, (che si discostavano dal progetto iniziale per l’ampliamento dell’abside e per la costruzione di una sagrestia ) venne festeggiata con una solenne benedizione. Tre anni prima il reverendo Andrea Tellino aveva istituito una cappellania con l’obbligo  al titolare della Chiesa dell’Annunciata di celebrare una messa a settimana ed ulteriori 12 messe in un anno, oltre  che provvedere alla manutenzione degli arredi sacri. Per supportare tali spese aveva disposto che gli venisse affidata in dote una vigna di 25 pertiche. Questa disposizione, tuttavia, venne sempre più  rimaneggiata e ridotta nel corso degli anni. La chiesa in origine si presentava con una struttura di mattoni a vista che  inglobava il muro su cui era stata dipinta l’immagine della Vergine Immacolata. I finestroni della  cupola erano quattro contornati da  bordature in cotto. Il tetto era sormontato da un’elegante  lanterna intonacata su cui si aprivano altre quattro finestre. Sulla facciata si trovava un affresco dell’Annunciazione eseguito da un pittore anonimo in seguito ammaloratosi.
Sempre sul tetto venne eretto un campaniletto  a vela ospitante una campana in bronzo di pregiata fattura che risulta acquistata a Milano presso la basilica di San Simpliciano nel 1699. Sulla campana sono incise, infatti, la firma  del costruttore “Opus Antoni Varoli” e la data di costruzione 1588. Un  bassorilievo rappresenta in effigie una Madonna con bambino, un vescovo con il pastorale  e Crocefisso e una crocifissione. Si possono leggere anche le parole “Ave Maria Gracia Plena”. La campana è stata restaurata nel 2005.
Dall’inizio  del 1700   si provvide all’allestimento degli interni. È possibile ricostruire, grazie all’archivio della Prepositurale di Nerviano,  sia i lavori svolti che i nomi di alcuni abili e valenti artigiani che sono intervenuti, fra i quali il maestro vetraio Francesco Paleari, che  si occupò dei lavori relativi alle finestre, Calimero Marazzo che si occupò della stabilitura; Matteo Trecino eseguì a sua volta tutte le modanature in gesso della chiesa. Franco Rimoldi, altro valido studioso della storia di Nerviano,  attribuisce a quest’ultimo artigiano anche la scultura delle due statue anonime situate nelle nicchie di cui i vari documenti consultati non riportano l’autore in maniera ufficiale: ipotesi avvalorata dal fatto che sia per  le parti ornamentali che per  le statue è stato usato lo stesso tipo di materiale.  Nel 1725 fu forgiata una inferriata in ferro battuto da un fabbro legnanese – Oldrini – inferriata che però non è più presente da diversi decenni e che possiamo osservare in immagini d’epoca.
Dalla visita pastorale del 1740 risultano ad opera di un tale Luigi Savioni altri affreschi, ora scomparsi, che raffiguravano san Mamete ed un’Annunciazione. Una elegante balaustra in marmo broccadello  venne realizzata da Bernardo Giudice, piccapietra di Saltrio. Nel 1752, furono commissionate dall’abate Antonio Crivelli, con l’approvazione del prevosto Antonio Pessina delle decorazioni absidali al pittore Agrati al fine di ottenere una scenografia prospettica ; contemporaneamente vennero chiuse le due porte laterali e  due finestre della cupola. Più o meno nello stesso periodo la volta della sacrestia viene affrescata da un tale Belotti di Busto Arsizio.
Un documento interessante è quello relativo agli arredi della chiesetta. Andrea Tellino, infatti, nel 1713, elenca scrupolosamente tutti gli oggetti di cui è dotata la sua cappellania. Ancora adesso possiamo ammirare i mobili in noce all’interno della sacrestia ed in particolare in bellissimo canterano in cui  si trova lo stemma di questo primo cappellano.
Nello stesso armadio si conservano anche una croce di legno dorata del 1727 contenente le reliquie dei Santi Martiri Proba, Casto e Teofila e un reliquiario con le reliquie di Santa Esuperanzia, tutte autenticate dalla Curia.
Diversi interventi di restauro vennero eseguiti nel 1900, anche a seguito delle indicazioni post conciliari che portarono alla realizzazione della nuova mensa orientata verso il popolo. Il più importante è quello voluto dal Prevosto Don Ugo Mocchetti a partire dal 1972, nel corso del quale si sono eseguiti lavori di rifacimento del tetto e di consolidamento delle mura, ci sono stati interventi sulle crepe,  sono stati eliminati i cartelli  stradali che deturpavano la piccola chiesa Un nuovo portone d’ingresso in noce sormontato da un nuovo affresco che raffigura l’Annunciazione, opera di Mario Bogani, ha restituito dignità a questa piccola opera d’arte Tutte le parti decorative interne sono state restaurate.  La Rotondina è tornata a rifiorire grazie all’affetto e alla devozione che i Nervianesi hanno sempre dimostrato a questo  simbolo della comunità cristiana ma è importante che continui ad essere curata e preservata, anche come tributo verso chi, per oltre tre secoli, l’ha amorevolmente accudita. 

Paolo Musazzi
Sergio Parini

Si ringraziano Giorgio Re e Aldo Bosotti per le ricerche storiche

© RIPRODUZIONE RISERVATA – Se vuoi utilizzare parti di questo elaborato comunicacelo a promemorianerviano@gmail.com, ricordando inoltre di citare la fonte e gli autori.


OSTI E OSTERIE NELLA NERVIANO CHE FU


A me piacciono gli anfratti bui delle osterie dormienti, dove la gente culmina nell’eccesso del canto
Questi versi di Alda Merini sono uno splendido tributo a quei luoghi di ritrovo e di svago che un tempo erano immancabili, sia nel più sperduto paese, che nella grande città.
E  nel 1922  Nerviano di osterie era ricca, come si nota nella  Grande Pianta Generale del Borgo e Comunità di Nerviano” su cui Paolo Caccia Dominioni segnala “tutte le bettole e le botteghe o negozi di vino” del paese nativo: tavola che utilizzeremo come aiuto per fare un salto a ritroso nel tempo.
Il Conte ha 26 anni e, uscito dall’esperienza drammatica della prima guerra mondiale, è proiettato in un contesto sociale e politico che sta vivendo cambiamenti radicali: siamo infatti alla vigilia della marcia su Roma. 
Con tono volutamente spensierato e goliardico, quasi a prendere le distanze da quel momento storico di grande tensione, dedica il disegno a Don Filippo Piazzi e al Signor Eugenio Albè “vecchi amici di spugne imperiali”.  Questo intento canzonatorio è reso ancor più evidente dal fatto che nella tavola  spiccano, irriverenti, due stemmi;  il primo, al centro, è quello della città di Nerviano, percorsa tutt’intorno da un motto scherzoso  Fuit barbera studium” che non ammette dubbi riguardo al vino preferito dai tre amici e, si suppone, dai Nervianesi. Nel secondo, troviamo una bottiglia , sorretta da due leoni, sormontata da una corona nobiliare composta da cinque calici e circondata da un collare da cui pende un bicchiere di vino. Alla sua sinistra spicca lo stemma della casata  Caccia Dominioni con la corona a nove punte che indica il titolo di conte, alla sua destra  è posizionato lo stemma dei Piazzi. Le due famiglie allora più in vista di Nerviano sono dunque accomunate, in questo disegno, da un’allegra e nel contempo nobile passione  per il vino.
Passione condivisa, però, dalla stragrande maggioranza dei Nervianesi. Lungo l’asse principale del paese sono indicate, partendo dal Sempione e scendendo sino al Pasquè, con il simbolo di una coppa, ben 23 osterie. Oltre alla  precisa  ricostruzione  delle sagome delle chiese e dei palazzi nobiliari, spiccano tre simboli che indicano come la politica abbia fatto irruzione anche  nella statica comunità nervianese. Tre osterie, infatti, sono affiancate dal simbolo del partito di riferimento  lo scudo crociato, la falce e martello, i fasci littori. Il primo indica il partito popolare, fondato da Don Sturzo nel 1918,  il secondo il Partito Comunista, fondato da Gramsci nel gennaio del 1921, il terzo  il partito fascista, fondato a Roma nel novembre del 1921, come evoluzione del movimento dei fasci di combattimento. Tre osterie, dunque, sono diventate punto di ritrovo di persone che si riconoscono in precisi  e fortemente contrapposti obiettivi politici. Spiega Paolo Caccia Dominioni con evidente ironia: “Sono dove si beve per un alto ideale”. Un passo, avanti, comunque, rispetto all’immobilismo che ha caratterizzato per decenni la vita politica nervianese, ma sarà una breve parentesi, giacchè siamo alla vigilia della Marcia su Roma… Da notare che le tre sedi indicate non corrispondono minimamente a quelle che gli stessi partiti avranno come punto di riferimento negli anni successivi. I simpatizzanti di Mussolini, per esempio, non esistendo ancora la Casa del Fascio, avevano come punto di ritrovo l’osteria del “Rabiaa” - un nome che era tutto un programma - situata in corrispondenza dell’attuale Bar Stazione.
Ma cerchiamo di capire  la realtà di quel periodo, con l’intento di non mitizzare troppo il tempo passato:  l’economia di Nerviano  negli anni ’20 era ancora essenzialmente agricola i I lavori più praticati erano quelli del paisan e del carrettee. La maggior parte dei contadini, lavorava terre  di proprietà dei possidenti della zona, quindi erano fitaol (fittavoli). Molti giovani, in bicicletta, si recavano a Milano per fare i magutt. Nelle case piccole e malsane mancava l’acqua corrente, l’elettricità era un lusso per pochi e il riscaldamento lo si otteneva col camino e la stufa a legna e carbone e per risparmiare il combustibile alla sera le famiglie si riunivano nella stalla per riscaldarsi al tepore delle bestie. Parliamo di un’epoca, chiaramente,  in cui i divertimenti erano pochi…
Quando gli uomini tornavano a casa stanchi, sfiniti dal lavoro, cosa rimaneva se non spendere le serate nell’unica consolazione che una vita grama poteva dare? Si andava quindi all’osteria e si annegavano pensieri e dispiaceri nel vino a cui  una credenza diffusa attribuiva  effetti corroboranti.
Non va sottovalutato inoltre il fatto che il consumo di alcolici era vissuto anche come una importante forma di aggregazione sociale. I paisan, infatti, guardavano con benevolenza e con una certa dose d’ammirazione chi riusciva a scolare più tazze di vino, anzi,  a volte si svolgevano vere e proprie sfide  a suon di quartini e di mezzi litri. Le uniche a lamentarsi per queste abitudini maschili erano le madri e le mogli che si trovavano a gestire le conseguenze, sempre spiacevoli, dell’ubriacatura…
All’osteria però non si andava solo per bere, ma anche per giocare, per farsi raccontare le novità del paese, per concludere affari.
In un mobiletto si trovavano i mazzi di carte con cui gli avventori giocavano a scopa, a scopone scientifico, alla marianna, a briscola, segnando i punti su apposite lavagnette. Due coppie si fronteggiavano  e ogni mezzo era lecito pur di vincere la partita: il tutto condito da contestazioni, urla, ingiurie più o meno colorite. Poi , vinti e vincitori si consolavano  o esultavano con una immancabile bevuta.
I marossee (mediatori di bestiame) aspettavano il momento in cui i contadini, rintronati dal vino generosamente offerto, erano disposti a vendere le loro bestie senza discutere troppo sul prezzo.
Poco prima della chiusura, trattandosi di una pratica vietata, si giocava alla morra  e i locali annebbiati dal fumo e impregnati dagli effluvi del vino, del sudore , del tabacco risuonavano di quatar, cenq , mura, con il consueto accompagnamento di incitamenti e recriminazioni che, a volte, sfociavano in vere e proprie risse
Col suo piccolo saggio “La vita a Nerviano”, Giuseppina Colombo ci aiutr a  ricordare alcune tra le più note osterie nervianesi del passato. In particolare in Viale Villoresi si trovava “Il Trani” del Pepin Di Marzo: questa mescita doveva il suo nome al luogo di nascita del proprietario, che ricordiamo anche come il primo meridionale che si stabilì a Nerviano (per la gioia di tanti bevitori…).
Molti furono i pugliesi, infatti, che in seguito alla guerra doganale con la Francia, iniziarono ad aprire locali a Milano e nei dintorni, vendendo vino molto alcolico a prezzi decisamente contenuti.  (Chi non ricorda la canzone di Gaber, Trani a gogo?)            
Nell’attuale Piazza Italia  Piazza Granda”, in corrispondenza con la Cremeria, si poteva frequentare “l’osteria della Polvara” che, in seguito acquistata dal maniscalco che aveva la sua officina lì vicino, venne ribattezzata “Osteria del Cavallino
Il Circulon era il luogo di ritrovo dei contadini che facevano parte della Cooperativa Sant’Isidoro. Ora, di questa osteria situata in via Rondanini, all’angolo della Streccia di Boldoritt, non è rimasta più alcuna traccia. A questo grande locale, a forma di L si accedeva direttamente dalla strada . Piero Dellavedova in “Luci e ombre di Nerviano” descrive  il suo interno: il bancone della mescita in noce massiccio, con bottiglioni di vino dozzinale, gli specchi con la pubblicità alle pareti, il mobile alle spalle dell’oste su cui erano disposti in ordine scrupoloso al litar, al mezz litar, al quart, al quarten, con tanto di timbro governativo che ne garantiva la quantità.
Gli avventori sedevano su sedie impagliate disposte intorno a tavoloni di legno. Sparse per il locale si trovavano le mitiche sputacchiere, in quanto un cartello vietava tassativamente di sputare in terra. Era vietato anche bestemmiare e giocare a morra. Ma tutti e tre i divieti erano abitualmente disattesi...
Un’altra mescita molto frequentata era quella della “Pesa”, in Piazza Olona. Qui c’era la pesa pubblica dove  venivano pesati animali e merci e, accanto, una piccola edicola di giornali. 
In via Lazzaretto si trovava invece “La trattoria dell’Olona” gestita dalla Brama e dal Rico, chiamati i piemontes, perché servivano  vini provenienti da quella regione.
All’imbocco del Viale Villoresi si trovava il Gioann Tabacchee: il locale, che, gestito da Ceriani Giovanni passerà successivamente al figlio Gini nella sua bivalente specializzazione di osteria/tabaccheria, dava una sorta di abbrivio a chi, in particolare vena (alcolica) decideva di iniziare il giro delle bettole! Dall’altra parte del Sempione, all’angolo di via IV Novembre, “Al Bigio” al secolo “Ristorante Zancona”, che in origine era un’antica stazione di posta per cavalli, funzione poi decaduta quando il servizio di trasporto lungo la Strada Statale venne assicurato dal tram. Successivamente questa locanda divenne nota come “La Grotta Azzurra”, celebre in quanto vi si svolgevano serate danzanti, oltre naturalmente a garantire il mantenimento dell’umidità della gola…
Andando verso Legnano si incontrava poi la “Locanda Vegia dal Sciatell”, che era meglio nota per altri “articoli” più che per la vendita del vino…
E fin qui il Capoluogo: ma le Frazioni?  Ovviamente fiaschetterie, osterie, locande e trattorie costellavano il territorio e presidiavano le strade più frequentate, senza lasciare però sguarnite le cascine isolate. Ecco allora che percorrendo Via Garibaldi, entrando in S. Ilario, si incontrava la fiaschetteria Colombo, seguita poco più avanti dal Pivatt e dall’osteria/tabaccheria del Chilu Tabacchee e poi il Bar Centrale. Una caratteristica particolare consisteva in una sorta di osterie autarchiche che sorgevano in diversi cortili della Cassina dal pè  che funzionavano in maniera singolare, ovvero quasi come dei ritrovi o dei circoli, ma che garantivano  - come i locali “ufficiali” – la fornitura del nettare di Bacco.
Alla Garbatola la presenza della Trattoria San Francesco - gestita dalla famiglia Leva – e del Circolo, evitava  di lasciare i paisan senza vino, mentre a Villanova il Circolino non esisteva ancora (non dimentichiamoci che nel nostro viaggio a ritroso nel tempo ci siamo fermati nel 1922…) quindi ci si doveva arrangiare diversamente… Un’osteria non mancava neppure a Costa San Lorenzo: la Genoeffa…
E Cantone? Non ce ne siamo dimenticati, assolutamente! Con un poco di poesia chiudiamo questo “amarcord” proprio con l’Osteria Vighignoeu perché la possiamo definire l’ultima osteria, l’ultimo locale in cui - a Nerviano – si ritrovano ancora sensazioni, battute e… bevute degne dei tempi andati. La storia del “Vighi” (come viene chiemato oggi…) risale agli ultimi anni dell’800, quando il Tognen, proveniente da Vighignolo, mette in piedi una baracca per la mescita del vino all’inizio di Via Torino… il nome col quale era conosciuta la bettola era “La Gabana”: ogni commento è superfluo.  Il Tognen, che non aveva figli, tenne con sé un nipote, Angelo, figlio della sorella che doveva badare ad altri sette figli e a lui lasciò poi l’attività. Attività che a quanto pare il giovanotto fece fruttare, visto che nel 1910 costruì l’edificio che ancora oggi ospita l’osteria… Poi la ruota gira, dopo Angelo il figlio Gioann con la moglie Pasquina e il Vighignoeu è arrivato sino ai nostri giorni, grazie all’indimenticabile Livia e all’inossidabile Angelo: l’ultimo oste di Nerviano.

Paolo Musazzi
Sergio Parini
Si ringraziano per la preziosa collaborazione Sergio Banfi “Tabacchee” e Angelo Cucchi “Oste”

© RIPRODUZIONE RISERVATA – Se vuoi utilizzare parti di questo elaborato comunicacelo a promemorianerviano@gmail.com, ricordando inoltre di citare la fonte e gli autori.

lunedì 18 marzo 2019

LA PESTE A NERVIANO

Nerviano, Anno Domini 1630, è un torrido giorno del mese di luglio in un’estate tremenda, alla fine della quale la popolazione del borgo adagiato sulle rive dell’Olona si troverà decimata a causa del terribile morbo che sta devastando l’intero Ducato di Milano. Batta de Silvestri sta percorrendo la strada che collega la cascina Zancona con il paese, conducendo il carretto col quale compie il suo mesto compito di monatto. L’aria è pesante e la contrada che precede la piazza grande appare completamente spopolata, porte e imposte sono sbarrate, nell'inutile tentativo di tenere il contagio fuori dalle case… sul pianale, avvolto in un lenzuolo, il corpo della giovane Antonia nipote di Marcantonio Cogliati, valente fabbro ferraio. Avrebbe compiuto i quattordici anni a settembre. Il carretto imbocca lentamente la polverosa piazza, costeggia la Chiesa di San Vito col suo portico della Comunità per i Pubblici Convocati e Consigli, ora desolatamente deserta e prosegue verso il fiume. Fatta una doppia curva e lasciata sulla destra la Casa del fornaio attraversa l’angusto ponte sull'Olona procedendo rasente all'imponente fabbricato del Monastero dei Padri Olivetani. Qui la strada si allarga in un bivio: a destra si va per Parabiago, mentre in fondo, al limitare dell’abitato distante circa 350 cubiti, si scorge l’edicola che ospita la dolce immagine dell’Annunciata. Lasciata alle spalle la chiesa di Santa Maria Incoronata il carretto svolta a sinistra, percorrendo il breve tratto che porta alla Chiesa della Ceriola, senza incrociare anima viva, men che meno un monaco che benedica l’ultimo viaggio della giovinetta.

La piazzetta che precede il Pasquè, solitamente animata dall'allegro chiasso dei bambini e dai villici intenti alle loro faccende appare sinistramente silenziosa: quel silenzio che accompagna quotidianamente Batta de Silvestri nel suo lavoro. Le case si diradano ed ora il sentiero permette solo il passaggio del carretto: il frinire dei grilli fa da sottofondo al rumore degli zoccoli del cavallo che procede stancamente costeggiando la roggia molinara del mulino dei signori Crivelli, di fronte al quale si staglia la Corte della Borlanda. Ancora un tratto di strada e poi l’ultimo sforzo: l’attraversamento del guado per attraversare nuovamente il fiume e giungere in prossimità delle capanne che ospitano gli ammalati di peste.
Qui il monatto, aiutato da un volenteroso, depone con delicatezza la salma in una delle fosse comuni che accolgono ogni giorno i morti per il contagio. Un sacerdote recita frettolosamente una preghiera impartendo la benedizione, dopo di che Batta de Silvestri torna pian piano verso il paese.
Abbiamo accompagnato, con l’aiuto dell’immaginazione, l’ultimo viaggio di una delle tante vittime del tremendo morbo che in pochi mesi, nell'estate del 1630, arrivò a ridurre la popolazione di Nerviano da circa 1750 abitanti a poco più di 1000.
Quella che vorremmo raccontare, a questo punto, è la storia per secoli dimenticata di un sacerdote di quel tempo, utilizzando però non l’immaginazione bensì i documenti che recentemente sono stati rinvenuti nell'archivio parrocchiale della Prepositurale di Santo Stefano durante le operazioni di digitalizzazione del materiale cartaceo.
Il nome di questo sacerdote era Giovanni Francesco Sonnio e il suo tempo è stato quello della peste. Quest’uomo nacque a Cuggiono intorno al 1560; resse dal 1602 fino al 1630 la Pieve di Nerviano e della sua vita sappiamo quello che ci tramandano poche pagine redatte in una visita pastorale del 1621, dalle quali si ricava una sorta di antico curriculum: persona colta, protonotario apostolico, latinista e letterato.
Di lui si sapeva poco così come scarse erano le notizie su ciò che avvenne al tempo in cui morì. Si pensava infatti che i documenti fossero andati persi e che la cronistoria di quel flagello e di quel periodo fosse svanita, coperta dalla polvere dei secoli: della peste raccontata dal Manzoni avevamo solo poche informazioni, qualche sporadica riga a margine di un registro e nulla più.
Una giornata di marzo di quest’anno, però, mentre ci si accingeva al lavoro sulla parte seicentesca degli archivi della Prepositurale, nello sfogliare un registro, sono apparse le pagine scritte di pugno dal sacerdote che raccontavano la cronaca di quel terribile tempo!
Nel 1630 Giovanni Francesco Sonnio aveva circa 70 anni, quindi era ormai al crepuscolo della sua vita, considerato che a quell'età solitamente si veniva definiti decrepiti. In questo caso sappiamo che il tempo era stato benevolo con lui, infatti celebrava messa regolarmente, impartiva i sacramenti e compiva l’opera di guidare la Pieve di Nerviano senta troppe fatiche malgrado l’età.
Archivio Prepositurale Nerviano
Effemeridi Cart.1 Lib. 2
Funerali e uffici 1626 - 1636
Autografo del Prevosto Sonnio
del primo caso di contagio in Nerviano
La prima notizia che ci viene data sulla comparsa della peste nel nostro paese è una nota porta dal Sonnio a metà della prima pagina di un registro che riportava le celebrazioni e i funerali dal 1626 al 1636: sotto a una nota del 1626, in posizione anomala, troviamo in una scrittura malferma: “Addì 25 giugno 1630, muore colpita da contagio una certa (il nome è difficile da decifrare) di Jacomo, …moglie di Ludovici… detto pennini la quale insieme a detti familiari venne da Milano infetta a Garbatola (Midiolano infecta Garbatulam) e qui infettarono il luogo (ubique locum inficerunt)”.
Il documento è sorprendente, in quanto ci informa precisamente della modalità con la quale si è diffuso il morbo nel nostro territorio: attraverso una famiglia sfollata da Milano per sfuggire dal tremendo flagello che la stava devastando già dal 1629.
Chiesa del Lazzaretto.
Affresco esterno sulla facciata a sinistra.
La consegna del cibo agli appestati
presso il Lazzaretto.
Dalle pagine riportate alla nostra attenzione dopo secoli ricaviamo altre importanti informazioni, come la nota dell’8 luglio 1630, allorquando Pietro Bugatti perito per aver contratto il morbo della peste, non venne sepolto nel cimitero ma ebbe le esequie in un luogo profano, vicino al fiume Olona accanto alle capanne, in una località denominata “Margiriola”: quindi nell’immediata manifestazione del contagio i Commissari di Sanità avevano provveduto a far attrezzare la zona ove successivamente sorse la Chiesa del Lazzaretto con delle “gabanne” e un’area per l’inumazione delle vittime del morbo.
Ormai la peste non risparmia nessuno: l’intero Ducato ne viene sconvolto e chi si trova a viaggiare può esserne colpito o diventare esso stesso veicolo di contagio: il 15 luglio un viandante che veniva dalla Valsesia e si recava a Milano muore dopo essere stato trovato agonizzante poco fuori Nerviano.
Dai documenti rinvenuti abbiamo contezza dell’esistenza di un “cimitero per gli apistati morti” anche a Garbatola, dietro la Chiesa dei Santi Biagio e Francesco, infatti una nota del 9 agosto ne attesta la benedizione.
L’11 agosto viene impartita la Benedizione al cimitero dei morti appestati fuori di Nerviano “dietro il fiume Olona” ed è questo il periodo di maggior virulenza del morbo, talchè il Prevosto Sonnio annota: “Addì 15 Solennità di Nostra Signora Vergine Assunta celebrai alle Gabanne del Lazzaretto e la sera benedissi la croce ivi eretta e messo il cero dell’Agnus Dei benedetto da Pio V”.
L’intero clero nervianese perisce nell’arco di due soli mesi: il Cappellano della Ceriola, Padre Vincenzo Gavarino muore il 23 luglio; l’ultimo giorno di luglio il reverendo Pietro Girlo Canonico Coadiutore di Nerviano; il 17 agosto Guglielmo Locati Canonico della Cassina del Pe’.
Notizie inedite, nascoste fra pagine ingiallite, così come per il parroco Sonnio, sulla cui sorte non si sapeva nulla, né di quale fosse stata la sua fine né dove fosse stato seppellito.
Archivio Prepositurale Nerviano
Antico 4 - Libro Battesimi 1611 - 1633
Memoria autografa del Frate
Bonaventura Redaelli
circa la morte del Prevosto Sonnio
Ma nell’ultima pagina del volume, scritta dal successore Frate Bonaventura Redaelli – inviato a Nerviano dal Monastero di Sant’Angelo in Legnano -, troviamo una nota che getta nuova luce sugli ultimi suoi giorni: “A dì 21 agosto 1630 in mercoledì morse il Plebano Francesco Sonnio Preposito di Nerviano infetto di peste visitato infermo et confessato dal Reverendo Pietro Martinolo Curato di Poliano il quale gli chiese anco se havesse bisogno d’altro nella sua infirmità contagiosa ma ello rispose che non ricercava altro; se non che pregasse Dio per lui. Fu sepolto nell’atrio della chiesa distante da detta cubiti ventiquattro presso il suo Coadiutore et fra due altri sacerdoti morti di peste”.
Questa è la storia dei nostri avi e di un sacerdote che ormai anziano ha dato la vita per portare conforto al suo gregge, dando ai propri parrocchiani l’unica speranza che poteva: la fede.
Dai suoi scritti non esce mai un lamento, mai una considerazione negativa, mai un tentennamento: sapeva bene che quella era l’unica via, la più giusta e la percorse diritta sino alla sua fine.
Ogni giorno Giovanni Francesco Sonnio annotava i nomi dei morti: nomi di persone che come le foglie cadute erano state calate nella terra senza lasciare memoria.
Delle centinaia di vittime che il morbo falciò a Nerviano questo è solo un piccolo stralcio di un giorno di agosto del 1630, che diventa uno spaccato dell’esistenza di quel tempo: “[…] Rocco Maietta, Bianca figlia del suddetto, Lucia sua figlia, Gasparino Pedretto e Barbara sua cugina, Giacomo de Cozzi, Pedrino e Rosina, Angela figlia di Paolo Musazzo, Paolina Bosotti, Bartolomeo figlio di Melchiorre Crivelli, Vincenzo Callegaro, Angelo Callegaro della Cassina del Pe’[…].”
Chiesa del Lazzaretto
Iscrizione attribuita al Prevosto
Agostino Terzaghi
posta sul portone d'ingresso.
Anni dopo – per volontà della popolazione - fu edificata nel terreno dove erano le “gabanne” una chiesa: quella di San Gregorio al Lazzaretto, per mantenere la memoria del flagello della Peste. Ricordo che ora rinnoviamo, così che si possa guardare con occhi diversi la chiesa del Lazzaretto e magari – soffermandosi come invita la lapide sopra l’ingresso della chiesa – si rivolga un pensiero ai nostri avi che ivi riposano e per il Sacerdote che tenne conforto in quei tempi tremendi ove la morte circondava ogni cosa.

Paolo Musazzi
Aldo Bosotti
Sergio Parini


© RIPRODUZIONE RISERVATA – Se vuoi utilizzare parti di questo elaborato comunicacelo a promemorianerviano@gmail.com, ricordando inoltre di citare la fonte e gli autori.

ARTICOLI E CONTRIBUTI PRO MEMORIA

In questa sezione raccogliamo tutti gli articoli e i contributi esterni realizzati dal Gruppo Pro memoria Nerviano.


EVENTI IN PROGRAMMA

Sabato 7 dicembre, alle ore 21.00 presso la Sala del Bergognone in Nerviano, presentazione del lungometraggio dedicato al Monastero degli Olivetani di Nerviano. A cura dell'Opificio Cultura e con la consulenza storica del nostro gruppo Pro Memoria Nerviano.






EVENTI PASSATI


Venerdì 22 marzo, alle ore 21.00 presso la Sala del Bergognone in Nerviano, presentazione del libro "Abbazie e Siti Cistercensi in Italia 1120 - 2018"  a cura del nervianese Piero Rimoldi e di Silvia Testa.

sabato 16 marzo 2019

La Vergine Incoronata o gli Olivetani in Nerviano di Michele Caffi

Proponiamo la descrizione del Monastero degli Olivetani di Nerviano realizzata nel 1844 da Michele Caffi (1814 - 1894), giudice milanese e appassionato studioso di storia locale.



La Vergine Incoronata o gli Olivetani in Nerviano
In età cadente erasi ridotto a vivere in Nerviano, terra del milanese, il conte Ugolino Crivelli. Un solo figlio egli aveva, per nome Antonio, cui teneramente amava, e cui, creato già cavaliere, pensava ad esaltare con ogni maniera di onorificenze, di studii, con isplendide nozze. Ugolino, dato da molti anni alla pietà, passava lunga parte del giorno in religiose esercitazioni. Quando in una notte egli sogna l’apparizione della Vergine che a lui impone d’innalzare un tempio. Si agita all’idea della grande spesa che sarebbe a costargli l’esecuzione del comando, all’idea della diminuzione che ne verrebbe alle sue dovizie, per cui non rimarrà il figlio così agiato come avrebbe voluto; lo atterrisce d’altra parte il pensiero di provocare contro di sé, se non avesse obbedito, l’ira celeste. Mentre dubita che fare, sogna altra apparizione della Vergine, non più come prima, bianco vestita e tutta irradiata di gloria, non più seduta sovra un colle fiancheggiato a destra e a sinistra da ramuscelli di olivo: (candidissimis vestibus amicta, montiloque hinc et inde a dextris et a sinistris olivarum ramulos habenti insidens) ma turbata e minacciosa nell’aspetto; ed ode ripetersi il comando di prima. Corre egli alla chiesa di Nerviano intitolata a santo Stefano, fa dipingere sovra una di quelle sacre pareti la visione avuta, ordina la celebrazione di pii uffici per placare la collera celeste, ed allontanare la spaventosa apparizione. Ma invano: ripetesi il sogno, ed ode pronunciarsi dalla Vergine la minaccia dell’imminente morte del di lui figlio. Il triste presagio indi a pochi giorni si avvera. Misero Ugolino! Dopo essersi per lungo tempo abbandonato al più profondo dolore, scosso quasi da letargo, chiamati a sé il priore e tre monaci degli Olivetani di Baggio nella diocesi milanese, ad essi dona tutti i suoi poderi in Nerviano, perché qui sorgano una chiesa ed un chiostro del loro ordine sotto l’invocazione di Maria.
                Il fatto avvenne nel 1465 ed è descritto in una bella pergamena che si conserva tuttora. Ugolino vi sopravvisse ancora tre anni, e scrisse nel suo testamento erede anche del rimanente suo patrimonio il nuovo monastero di Nerviano, che venne così a conseguire un largo censo, accresciuto poi in appresso da altre elargizioni.
                La fabbrica eretta per cura dei Crivelli riuscì assai bella e sufficientemente vasta. La chiesa, in ispezialità, dal fondatore intitolata a Santa Maria Coronata, e costrutta secondo le norme di quell’architettura che alla fine del secolo XV segnava i più sicuri passi al risorgimento dell’arte, faceva bella mostra, come la fa ancora quella porzione di essa che pure rimane in piedi, quasi per miracolo scampata alla rovina che nel secolo delle arti e delle memorie tanti avvolse di quegli insigni monumenti, i quali dobbiamo alle virtù od alle colpe de’ nostri maggiori, o come frutto di quelle o in espiazione di queste.
                La facciata conserva ancora l’antica sua tinta rossa, e a’ due lati veggionsi dipinte sul muro da non imperita mano le figure de’ santi Benedetto e Scolastica. Sulla porta di gusto semplice ed elegante vedesi un resto di buona pittura a fresco rappresentante l’Eterno Padre che cince di corona la Vergine assunta, e sotto di essa leggesi un motto latino inciso sulla pietra, che così suona in italiano.
                “Di voi ch’entrate in queste soglie reggerò i passi, favorirò gli studii, e con voi in questo luogo fermerò abitazione”.
                Nell’interno della chiesa, ch’era in una sola nave, conteneva otto cappelle oltre la maggiore. L’altare di quest’ultima era ornato di un insigne dipinto rappresentante l’Assunzione della Vergine; dipinto che passò, non ha molti anni nell’Accademia delle Belle Arti in Milano. Nella cappella di Santa Maria, un Lodrisio Visconte avea pattuito fin dall’anno 1522 coi monaci un sepolcro per sé e per la moglie, ed una lapide che lo ricordasse.
                Quella del Crocifisso conservava il monumento di un altro Crivelli, benefattore di questo tempio, cioè del senatore Luchino: monumento che fu poi non ha guari trasportato nella casa in Nerviano al numero 60. In esso leggesi in idioma in latino:
                “A Luchino, figlio di Pietro Crivelli, giureconsulto, cavaliere aurato, senatore, rettore dell’Università di Pavia, governatore, legato agli Svizzeri per Lodovico, Massimiliano e Francesco II duchi; della patria difensore e conservatore zelantissimo; illustre nella toga e nelle armi; affinchè di tanto cittadino la dolce memoria presso i suoi conterranei non perisse, la moglie Maddalena Brasca, madre e tutrice di Pierfrancesco Crivelli, piccolo ed unico figlio, pose questo monumento. 1535, 22 maggio”.
                Luchino avea nel suo testamento instituita usufruttuaria la moglie ed erede il figlio, il quale contava alla di lui morte soltanto un anno e mezzo di età, sostituendo a quest’ultimo, pel caso che non avesse lasciati dietro di sé eredi legittimi, il monastero di Santa Maria Coronata di Nerviano. Pierfrancesco, nell’anno 1550, si rese reo di omicidio e fu condannato a perdere la testa ed i beni. La sentenza non ebbe effetto perché egli fu assolto; ma fu causa a gravi quistioni sulla sussistenza della pronunciata confisca, perché i monaci pretendevano che la grazia concessa al reo non dovesse privarli di un diritto che avevano acquistato dal giorno in cui egli civilmente era morto, e non dovesse fruttare al condannato un secondo benefizio, oltre quello, grandissimo, della vita. Non furono tuttavia secondate da felice esito le loro pretese, eglino vennero bensì a transazione, ma con poco vantaggio del monastero.
                Altri dei Crivelli che si resero benemeriti di questo cenobio furono nel 1473 Giacomo e Luigi fratelli, indi verso la fine del secolo XVI Orazio e Curzio, figli l’uno legittimo, l’altro naturale di Pierfrancesco suddetto; non dovendosi tacere che Francesco re di Francia e duca di Milano concesse egli medesimo negli anni 1517, 1519 al chiostro di Nerviano molti privilegi ed esenzioni; e che già prima la duchessa Bona Visconti avevagli attribuito in data del 24 aprile 1471, e riconfermato nel 5 giugno 1476 il privilegio d’irrigare colle acque del fiume Olona i prati ad esso convento lasciati dal fondatore Ugolino Crivelli. Il che venne più ampiamente di poi confermato da Francesco II Sforza-Visconte, duca di Milano, con lettere patenti in data 30 agosto 1522.
                Il numero de’ monaci che abitavano anticamente il convento era di quattordici o sedici, secondo che portavano le rendite. Il capo col titolo di priore, sette od otto monaci-sacerdoti, non che alcuni dei così detti conversi o dedicati. Fu diminuito il numero da papa Innocenzo X, coll’opera del segretario Prospero Fagnano, e ridotto a quello di quattro, indi sei coristi e due conversi. Così fino all’abolizione avvenuta alla fine del secolo XVIII; quando un decreto della Repubblica che intitolavasi Cisalpina disciolse anche questa corporazione come tante altre, e mandò i monaci ad unirsi a quelli di san Vittore in Milano. Nel giorno diciotto ottobre 1798 abbandonavano l’antico cenobio il quale fu adattato ad usi profani e presto in gran parte cangiato dall’aspetto che aveva. La chiesa almeno, per la bella sua forma, pel sito principale del paese in cui sorgeva, per le memorie che richiamava, la chiesa almeno meritava conservazione. Ma il genio della novità e della distruzione, che pur troppo da qualche lustro fa mal governo di queste nostre contrade, e si sforza di farci dimenticare che cosa altri furono perché non si venga al confronto che cosa noi siamo, accennava diversamente. Chiusa al culto divino, fu volta ad indecenti usi, e presto in gran parte demolita. Oggi non ne rimane più che il prospetto.
                Degli ultimi cenobiti che soggiornarono niuno è più fra i viventi. Ma tuttora in Nerviano e ne’ vicini villaggi la loro memoria; colà restano persone che li conobbero, li amarono, li ebbero a consiglieri, ad amici. Vi resta pur ora chi ricevette da essi i conforti umani e di religione, piegò ginocchio ai sacri loro tribunali, si assise alle frugali loro mense, ci versò nel seno di questi buoni solitarii le lagrime del dolore o della consolazione. – Iddio li ha già rimunerati colla celeste corona!

Michele Caffi